"E di colpo percepisce in quella dichiarazione una minaccia. Qualcosa che si avvicina dalla parte del mare. Qualcosa che avanza trascinato dalle nubi scure che attraversano invisibili la baia di Acapulco."
Roberto Bolano, (da Ultimi crepuscoli sulla terra; Puttane assassine)

lunedì 26 ottobre 2015

Ogni giorno è per il ladro, di Teju Cole, Einaudi editore, trad.di Gioia Guerzoni

 Teju Cole, dopo la morte del padre, ha abbandonato il proprio paese per andare a studiare medicina negli Stati Uniti, lasciandosi alle spalle l'unico mondo da lui conosciuto fino a quel momento. Forse non lo si nota, non subito quantomeno, ma il libro parla di codici. Codici acquisiti, codici atavici, codici dimenticati, codici ritrovati e di nuovo abbandonati. E soprattutto parla dell'identità di un uomo quando perde i suoi codici originari, e di quando li ritrova. In questo senso diventa interessante seguire il viaggio di un nigeriano in Nigeria. Con quali occhi rivede il proprio paese natale? Attraverso quali codici lo interpreta? Teju Cole scrive un personale diario del ritorno che in qualche maniera, tra le righe, diviene un diario universale di chi si è allontanato da qualcosa e decide, coscientemente, di farvi ritorno.
La Nigeria è un paese perennemente sull'orlo del caos, forse anche oltre quella bordatura che separa il primo dal terzo mondo, l'ordine e la logica dalla magia e dalla follia urbana. Non solo follia, ma pure dal sopruso, dalla violenza, dalla superstizione, dalla corruzione. Eppure, si ripete spesso il protagonista, guardandosi attorno, un po' sconcertato e un po' sconsolato, eppure la Nigeria, a sentire le classifiche che qualcuno stila (a ragion veduta s'immagina), è il paese al mondo dove la gente è più felice. Non il paese più felice del mondo: il paese al mondo dove la gente è più felice: c'è differenza. Ma come si può essere felici in posto dove un ragazzino che tenta uno scippo al mercato viene linciato e bruciato vivo dalla gente accorsa sul posto? L'occhio di Cole pencola tra la sconforto nel registrare l'apatia e la brutalità nelle quali è invischiato il paese, e Lagos in particolare, e la ricerca insopprimibile di particolari nei quali riporre una speranza di rinascita. Il futuro. La corruzione è un preciso dato di fatto, accettato e, entro certi limiti, anche compreso: si può rubare, sempre se non si esagera. Ognuno ha il diritto di pretendere dal prossimo una (sorta di) tassa di ridistribuzione della ricchezza, o quantomeno così è come se la raccontano laggiù. Laggiù, nell'Africa, a Lagos, in Nigeria, in quel paese che Cole non riconosce fino in fondo forse perchè, a scapito dell'attuale sviluppo economico legato alle attività delle multinazionali del petrolio, rimane uguale a sè stesso, troppo identico ai propri difetti nei quali continua a specchiarsi. Il passo narrativo è lento, ponderato, ma in fondo lieve. L'attenzione è per i particolari, per quei particolari che provocano nel protagonista uno smottamento interno. Le fotografie in bianco e nero (dell'autore) che puntellano il testo testimoniano la distanza tra Cole e il paese nel quale è tornato. Testimoniano la necessità di fissare l'attimo, il particolare, il non detto o il non compreso. Fotografare per tornarci sopra, in un secondo momento, a studiarne i codici da decifrare. Torniamo ai codici. Quelli originali (etnici, quasi tribali; forse senza quasi) su cui la cultura nordamericana ha sovrascritto i propri, ora tornano a galla o, per meglio dire, studiano sè stessi in attesa di capire se davvero tornino a galla. Il perenne ritorno di chi se n'è andato quasi all'improvviso, quasi di soppiatto, prendendo tutti alla sprovvista, il ritorno di chi già sa che ancora una volta se ne andrà e che, alle domande che gli vengono rivolte, se pensa un giorno di tornare, se pensa di ripercorrere i suoi passi e aiutare il paese nella sua perenne, infinita corsa verso la modernità, non sa cosa rispondere. La famiglia, il caldo, le credenze magiche ed assurde, la mancanza di ciò che da altre parti nel mondo viene dato per scontato, la capacità di ridere anche delle tragedie (soprattutto delle tragedie), l'accettazione della realtà così com'è, perchè un'altra realtà è possibile solo in un altro posto. Le librerie sfornite, la scarsa se non nulla attenzione a qualsiasi forma di pratica culturale, l'abitudine alla violenza, al taglieggio, la costante sensazione di trovarsi a rischio, sul limitare di un baratro, senza peraltro farci caso. Tutto contribuisce a formare un puzzle che si compone nel medesimo istante tra le mani dell'autore e sotto gli occhi del lettore. Ogni giorno è per il ladro (ma uno è per il padrone) è un libro di passaggio, un meccanismo che s'inceppa e riflette su sè stesso e sul proprio incepparsi. L'esule o, in questo caso, l'espatriato può mantenere nei confronti del paese abbandonato due diversi atteggiamenti: rimpiangerlo ed idealizzarlo, o screditarlo e dimenticarlo. Cole riesce a non sposare nessuna delle due opzioni ma si dibatte tra esse mettendo a nudo la propria impotenza. E' Lagos che lo comanda, è la Nigeria che comanda in Nigeria e Cole è un burattino nelle sue mani: non può far altro che guardarsi attorno, e dentro, e raccontarci cosa voglia dire essere un uomo senza più codici. O con troppi codici.

Teju Cole, scrittore, storico dell'arte e fotografo, è cresciuto in Nigeria e vive a Brooklyn. Città aperta, il suo primo romanzo, pubblicato da Einaudi nel 2013, ha vinto il PEN/Hemingway Award, il New York City Book Award for Fiction e il Rosenthal Award, ed è risultato finalista al National Book Critics Circle Award, il New York Public Library Young Lions Award, e l'Ondaatje Prize della Royal Society of Literature. Inoltre, è stato giudicato uno dei migliori libri dell'anno da più di venti testate, fra le quali «The New Yorker», «The Atlantic», «The Economist», «The Daily Beast», «The New Republic», «Los Angeles Times», «Salon», «Slate», «New York magazine» e «Kirkus Reviews». Nel 2014, sempre per Einaudi, è uscito Ogni giorno è per il ladro.

domenica 18 ottobre 2015

Teoria delle ombre, di Paolo Maurensig, Adelphi editore

  Morire soffocato da un pezzo di carne con un cappotto indosso nella propria stanza di hotel, non è il destino che si può aspettare il campione del mondo di scacchi, un genio assoluto, conosciuto per il suo stile d'attacco e per le sue costruzioni complesse. In effetti, per Alekhine, quarto campione del mondo di scacchi ancora in carica al momento del decesso, sarebbe una morte a tal punto banale dallo sfiorare il ridicolo. Ma il narratore di Teoria delle ombre, che potrebbe essere o non essere lo stesso autore (o un personaggio che incarna le ipotesi dello stesso Maurensig), si reca in Portogallo per reperire notizie di prima mano su quella che, per lui, è una fine poco chiara (nè banale nè ridicola), una versione ufficiale dietro la quale si nasconde altro. La ricostruzione degli ultimi giorni trascorsi da Alekhine all'Hotel do Parque, di Estoril, fino alla notte tra il 23 ed il 24 Marzo 1946, che occupa buona parte del libro, è dichiaratamente una ricostruzione romanzesca, ipotetica. Ovviamente, nella versione immaginata da Maurensig (e quindi dal suo narratore), la morte per asfissia è solamente la versione ufficiale di comodo. La verità è altra. Inquietante, complessa, segreta. Possiamo non svelarla, anche se è facile immaginarla, ma non è importante. Per quanto sia costruito come un giallo elegante che gioca con la storia dichiarando esplicitamente il proprio intento romanzesco, Teoria delle ombre non è un giallo. Si legge come tale, ma non lo è. Maurensig è uno scrittore attento, dallo stile elegante, trattenuto, classico, che costruisce una struttura dall'impianto solido, che si autogiustifica, al solo fine di raccontare qualcosa di più di una detection che non sarebbe in grado di portare fino in fondo sul piano reale. Quindi non è un giallo e non è neppure un saggio giornalistico sulla morte (e sui misteri che questa porta con sè) di un grande scacchista. La biografia di Alekhine lo vede passare attraverso la Russia zarista, quella Sovietica, la Francia e la Germania nazista, sempre con una scacchiera in mano come sua unica bussola. Quanto sia stato anticomunista e quanto filonazista non è ben chiaro, e su questa opacità Maurensig immagina il conflitto interiore di un uomo perennemente in bilico tra poli opposti: alcolismo e lucidità geniale, megalomania e insicurezze umane (vedi il suo attaccamento feticista al vaso avuto in dono dallo Zar in persona), fama e solitudine, ricchezza e mancanza assoluta di denaro. L'Hotel do Parque è l'immenso palcoscenico, tetro e vuoto nell'inverno portoghese, nel quale Alekhine si aggira in attesa che la sua carriera ricominci. Il titolo di campione del mondo è sempre nelle sue mani, ma non gioca ad alti livelli da troppo tempo (da qui l'insicurezza che apre brecce nella sua megalomania), si sta separando dall'ennesima moglie (tutte più anziane di lui, forse nessuna amata veramente), non ha una lira (l'Hotel è pagato da altri) e trascorre il tempo in attesa che la vita abbia uno scarto e ricominci a scorrere, chiamandolo a recitare il ruolo da protagonista che gli compete. La tragica parentesi della grande guerra si è chiusa e il mondo sta prendendo le misure ad una nuova realtà, sullo scacchiere mondiale si sta schierando un rinnovato assetto geopolitico, la guerra fredda sta ponendo le proprie basi per occupare gli anni a venire e l'Europa è un enorme cantiere in cui chi non è morto si dà da fare per trovare un proprio posto nella ricostruzione e, spesso, per far dimenticare chi è stato e cosa ha fatto negli anni del conflitto. Le tensioni si spostano dai campi di battaglia agli scenari politici e alle strutture segrete di intelligence che si occupano di decidere quali saranno le prime mosse sulle quali giocare il nuovo futuro. Si costruisce su macerie, in un immenso camposanto. Mentre l'Europa brulica di spinte ricostruttrici e di un'energia convulsa e caotica, Alekhine rimane bloccato in una immobile attesa di qualcosa che gli permetta di riempirsi le tasche e di riprendere il corso della sua vita. Ed è in quell'hotel vuoto che Alekhine, proprio quando pare che il futuro reclami nuovamente la sua presenza, si trova ad affrontare i fantasmi del suo passato. Le accuse di antisemitismo e filonazismo, di aver trovato riparo e aiuto presso gerarchi del regime di Hitler, di aver scritto articoli che avrebbero diviso il mondo degli scacchi tra ariani ed ebrei, di non aver usato la sua fama per salvare colleghi scacchisti ebrei. Ma è stato davvero connivente e sostenitore del regime nazista, o semplicemente è stato un uomo e uno scacchista - uno dei più grandi di tutti i tempi - che si è trovato a barcamenarsi tra i marosi della storia. E' stato (quasi) un mostro, o semplicemente un uomo come tanti, incapace di eroismi, disposto a scendere a compromessi pur di salva(guarda)re sè stesso e la sua passione. E' vero che l'unica cosa che ha contato nella sua vita sono stati gli scacchi e che tutto quello che ha fatto, le scelte compiute, le svolte intraprese, tutto nella sua esistenza è stato in funzione di quei pezzi da muovere come un orchestra sul quadrato di una schacchiera? E quindi, è morto per morte accidentale, banale, ridicola, beffarda come spesso è la morte, o qualcuno ha deciso per lui il termine della sua esistenza? Le ombre che tormentano i suoi ultimi giorni sono reali, come ce le propone in effetti il narratore, o non sono altro che i simboli di una lotta interiore di un uomo incapace tanto di raggiungere il proprio futuro quanto di fare i conti col proprio passato?
  Quello che resta, di quest'ultimo libro di Maurensig, è la solitudine di un uomo perso in sè stesso, dei suoi passi per i corridoi vuoti di un grand hotel all'estremo confine dell'Europa, di un mondo, quello degli scacchi, il suo, al quale si è votato totalmente e che, ad un certo punto, è parso non contare più nulla, o troppo poco, ma che da lì in avanti sarebbe divenuto un'arma essenziale della guerra fredda, un uomo quasi sicuramente antisemita, forse filonazista, un campione del mondo. Un uomo che, al di fuori della scacchiera, non riesce più a reggere il confronto con sè stesso e con le proprie azioni.

  Il mondo degli scacchi ed i suoi protagonisti ancora una volta si dimostrano materiale narrativo ideale per Maurensig, anche se la struttura del libro, il suo oscillare apparentemente tra giallo e ricerca, pur in un suo formale equilibrio, toglie alla materia narrata la grandiosità tragica di cui avrebbe potuto ammantarsi. E' come se il coltello non affondasse mai nella ferita ma la slabbrasse appena per mostrarla in tutta la sua deforme bellezza.

So cosa non è (un giallo, un saggio storico, un indagine), ma quello che è (la tragedia dell'uomo di fronte a sè stesso ed alla propria coscienza) non lo è fino in fondo.


Nato a Gorizia nel 1943, Paolo Maurensig, dopo aver compiuto gli studi classici, si trasferisce a Milano, dove inizia a lavorare nel campo dell'editoria. Parallelamente coltiva la sua passione per la scrittura, pubblicando alcuni libri di racconti (I saggi fiori, All'insegna del Cigno, Ippocampo - Milano). Il successo arriva con  la Variante di Luneburg, (Adelphi 1993) il quale si rivela  il caso letterario dell'anno.
Seguono, per i tipi della Mondadori, Canone Inverso (1996), da cui è stato tratto l'omonimo un film diretto da Ricky Tognazzi, L'ombra e la meridiana, Venere Lesa (1998), L'uomo scarlatto (2001) e Il guardiano dei sogni (2003), la novella gotica: Vukovlad, il signore dei lupi (Mondadori 2006) e Gli amanti fiamminghi (Mondadori, 2007).
Per i tipi della Morganti editrice ha pubblicato di recente La Tempesta, il mistero di Giorgione e il romanzo: L'oro degli immortali. Nel 2012 sono usciti due libri: il breve saggio intitolato Il Golf e l'arte di orientarsi con il naso (Mondadori) e L'ultima traversa. (Barbera Editore). Sempre per Mondadori, è l'ultimo romanzo storico L'Arcangelo degli Scacchi.
   


domenica 11 ottobre 2015

Una domenica pomeriggio, di Roberto Arlt, Sur Editore, trad. di Raul Schenardi

  I personaggi a cui Roberto Arlt dona voce e nobiltà (e che nobiltà!) letteraria sono alla continua ricerca di un perchè, una scusa che giustifichi la loro abiezione. Sprofondano, e sono abitati da una febbre a tratti petulante di raccontare questo loro sprofondare. Ricordano i morti di Spoon River che assediano Lee Masters perchè questi ne racconti il passaggio sulla terra; ma i personaggi di Arlt sono vivi, almeno in apparenza. Sono uomini e donne impantanati in un apatia che offusca loro i sentimenti e i ragionamenti, che li rende lamentosi ed autoassolutori. Sanno cosa sono, vale a dire rifiuti della società, e non fanno nulla per negarlo, ma si incaponiscono nel voler spiegare al mondo come sono diventati quello che sono. E' il caso del primo racconto, Il gobbetto, in cui il protagonista mette le mani avanti e ammette di essere sprofondato (l'uso di questo verbo è ossessivo nei primi due racconti) in un abisso oscuro, ma ne ricerca la responsabilità in Rigoletto, il gobbo del titolo. Ci troviamo di fronte ad un "lui è peggio di me": se il narratore è quello che è (un omicida) la colpa è di Rigoletto, che è (appunto) peggio di lui (..."era l'essere più sfacciato della sua specie"). Il fatto di averlo infine strangolato, il gobbetto impertinente, passa distrattamente in secondo piano. Non viene nascosto l'omocidio, ma rimane relegato a ruolo di semplice particolare moralmente giustificabile e, quindi, automaticamente giustificato. Il punto di vista narrativo ovviamente è (deve esserlo) sempre interno: la storia la veniamo a conoscere direttamente dalla voce del narratore, sentiamo solo il suo punto di vista, e non potrebbe essere altrimenti: l'effetto straniante, urticante, a tratti nauseante deriva esattamente dalla sproporzione inscritta tra la profondità degli abissi narrati e la svogliatezza apatica con la quale, in prima persona, sono descritti.


  Ne Le Belve, il secondo racconto, il narratore parla ad una donna che, immagiamo, lo ha ferito in passato; è lei la destinataria assente del monologo a cui viene raccontato il mondo fetido e perverso nel quale lo ha fatto precipitare: il bar, Ambos Mundos, Unghia d'oro, il Bamboccio, l'Orologiaio, Tacuara, Guillermito, Cipriano: ladri, delinquenti, truffatori, omicidi e stupratori di minorenni che riescono ad intenerirsi al ricordo delle proprie atrocità. Anche qui, il racconto non è altro che un'istantanea, una descrizione patologica del sub-mondo del bar e dei suoi frequentatori, i loro silenzi, le smorfie, la noia, la mancanza di morale, la violenza, le loro donne, che poi sono quelle che li mantengono, prostituendosi, e che si beccano le loro botte, per noia.

   ... l'Orologiaio fa spallucce, sorride penosamente e dopo aver rimuginato a lungo la risposta dice: << Che ne so io. Sarà perchè mi annoio. >>

 Chi racconta, ancora una volta, non nega di aver toccato il fondo, sa distinguere in sè e negli altri frequentatori del bar la propria natura di belve, ma a giustificazione chiama sempre in causa una serie di motivazioni patetiche ed assurde a tal punto da rischiare di sembrare verosimili: il dolore, inflittogli dalla donna alla quale racconta la sua vita attuale, e una sensibilità (la sua) sovradimensionata rispetto alla realtà abietta nella quale è scivolato. Un micro cosmo sub-umano nel quale il ricordo di uno stupro lascia trasognati a riassaporarne, nella memoria, il piacere; in cui gli uomini si eccitano e (forse) si inorgogliscono ad accompagnare le proprie donne a battere sulla strada ("All'improvviso ci passa per la testa un timore: <<Oggi la sbattono dentro di sicuro>>, o << Sarà l'ultima volta che la vedo?>>); nel quale il bar è un acquario pieno di pesci sonnolenti e pericolosi che, quando non si scannano tra di loro, si iniebetiscono a guardare fuori quel mondo di persone normali che proprio non riescono a capire.

... e ci entrano negli occhi tenebre che nemmeno le strade più buie hanno nelle loro profondità melmose, mentre dietro la spessa vetrata che dà sulla strada passano donne oneste che passeggiano a braccetto di uomini onesti. 



  Lo scarto più evidente rispetto alla struttura tipicamente Arltiana della narrazione come espediente (una scusa) per descrivere un mondo di reietti e (all'interno della narrazione) della ricerca di una scusa per giusticare la propria presenza in quello stesso mondo (o abisso, o universo parallelo) lo si ha nell'ultimo racconto, che dà il titolo alla raccolta, Una domenica pomeriggio. Qui non ci troviamo immersi nei meandri della piccola malavita bonaerense, non per forza quantomeno, ma seguiamo il girovagare ozioso di Eugenio Karl, il protagonista, un tipo strambo che stila presagi a seconda delle palpitazioni del suo cuore. Eugenio incontra una donna bionda, che gli sorride, Leonilda, la moglie di un suo amico. Questa lo invita in casa a bere un thè, anche se suo marito non c'è, anzi, proprio perchè suo marito non c'è. Arlt viviseziona magistralmente il desiderio dei due, la danza che si instaura tra le remore e gli strappi in avanti dei due possibili amanti. Rifiuti, dinieghi, nuove proposte, ogni passo in avanti è un passo verso il precipizio dal quale non si torna indietro, la colpa percepita nell'aria elettrica come un corpo solido, o solidificantesi, e il desiderio insopprimibile, il piacere della colpa, del proibito, del sacrificare amicizia e amore coniugale sull'altare della lussuria. Ma quando Leonilda finirà col tirarsi indietro, il mancato piacere del sesso proibito porterà Eugenio Karl a sostituirlo con un altro tipo di piacere, più sottile, più cinico. A suo modo più perverso. In un dialogo perfetto nel suo crudele scavo psicologico, Karl scaverà nella donna fino a portarne alla luce gli intimi recessi di abbandono, di lussuria, sospirata e non consumata, la sua natura di donna infelice incapace di allungare la mano a prendersi una parentesi di soddisfazione, di rivalsa sulla mediocrità tediosa della vita: qualcosa di cui potersi almeno, dopo, pentire. In questo racconto, così differente dagli altri due, Arlt si mostra più complesso, capace di finezze che i protagonisti dei suoi altri racconti non gli permettevano, troppo occupati a giustifcare sè stessi e le proprie abiezioni. Qui non c'è uno sprofondo, è piuttosto una danza, un tango crudele che termina senza essere stato ballato, sull'impiantito ligneo della sala da ballo risuona soltanto ciò che non si può vedere, i sentimenti, le paure, l'ansia, l'eccitazione che sale e che si trasforma in bisturi psicologico (il dialogo, magistrale). Questo è infatti l'unico racconto in cui il narratore è terzo rispetto ai personaggi ed ai fatti narrati. 

   Arlt è Buenos Aires, è l'altra faccia di Buenos Aires, quella oscura, impresentabile, è il cantore dei cattivi sentimenti, delle perversioni che abitano un universo parallelo, dei delinquenti, dei vinti, delle puttane, di un mondo dove la violenza è l'unico linguaggio che riesce ad accompagnarsi a quello universale del silenzio minaccioso, degli sguardi in tralice, del sentimentalismo stucchevole che mescola stupri e Gardel, quel mondo DeAndreiano (o anche tipico, tra gli altri, di Nelson Algren, di Hubert Selby Jr o di Bukowsky) che nessuno vuole prendersi la briga di vedere, dove infilzare ad un tavolo la mano della propria donna non merita neppure il tempo di un dubbio. La vita vera (o fasulla, dipende) è quella incomprensibile che scorre al di là delle vetrate dei postriboli, dove uomini e donne oneste camminano mano nella mano, ma è appunto un mondo altro, alieno, le cui regole e i cui simboli non sono altro che messaggi non decrittabili che provengono da un altro universo.

Arlt è grottesco, spietato, ironico, urticante. E assolutamente indispensabile.

Penso che è triste non sapere chi ammazzare


Roberto Arlt nasce a Buenos Aires nel 1900. Figlio di immigrati europei (il padre prussiano, severissimo), fin da bambino si ribella alla rigida educazione familiare. A sedici anni lascia i genitori e vive senza fissa dimora per le strade di Buenos Aires. Lavora come meccanico, imbianchino, operaio portuale, commesso e intanto studia da autodidatta. Poi comincia a collaborare a qualche giornale e infine diventa giornalista a tempo pieno. Il suo primo romanzo, El juguete rabioso (Il giocattolo rabbioso) esce nel 1926 ed è la storia più o meno autobiografica della sua adolescenza nella caotica e affascinante Buenos Aires dei primi anni Venti. Tre anni dopo, Los siete locos (I sette pazzi) viene esaltato da alcuni come un capolavoro, ma anche bollato da altri come «scritto male». Nel 1931 esce il sequel del romanzo precedente, che ne completa le vicende: Los lanzallamas (I lanciafiamme). Ma il suo libro più fortunato è Aguafuertas porteñas (Acqueforti di Buenos Aires), del 1933, ritratti di Buenos Aires usciti inizialmente in una popolarissima rubrica che Arlt teneva sul quotidiano «El Mundo». Come giornalista viene inviato in Brasile e in Spagna (durante la guerra civile). Muore a Buenos Aires nel 1942, per un infarto.

domenica 4 ottobre 2015

Il principio del piacere, di José Emilio Pacheco, Edizioni Sur, trad. di Raul Schenardi

  Nel racconto che dà il titolo al libro, Il principio del piacere, un ragazzino si innamora per la prima volta, e lo fa abbandonandosi al delirio del sentimento. Durante i mesi di delirio amoroso, nei quali deve fare i conti con la realtà che la sua amata, Ana Luisa, non è il ritratto della virtù e che nasconde qualcosa (qualcosa di oscuro, di misterioso, di sporco), il protagonista scopre una nuova porzione di realtà, che non immaginava: la vita del padre, le sue zone d'ombra, l'equilibrio non poi così saldo sul quale si regge la sua famiglia (e il mondo intero), il dolore immenso che scaturisce dal sentirsi traditi, il senso ineffabile e disorientante di cospirazione che vive ogni innamorato, le sparizioni di Ana Luisa, i suoi silenzi, le allusioni a qualcosa di terribile che non si capisce cosa sia ma che c'è. Tutto complotta perchè venga scagliato in un folle vortice dal quale uscirà diverso. Più adulto. Disilluso. Frastornato e suonato come un pugile: con addosso una sensazione di irrealtà, come se fosse stato fregato ad un gioco che, a sentire gli adulti, avrebbe dovuto essere divertente.

  se questa che sto vivendo, come dice la mamma, è la tappa più felice della vita, chissà come saranno le altre, cazzo. (pag.53)

  Il mistero in questo racconto non ha nulla di soprannatuale ma è una vertigine tutta umana, inesorabilmente umana, una strada che non si può evitare di percorrere e che si sà già dove condurrà, in un vicolo oscuro.
  La festa selvaggia è un racconto dello scrittore Andrés Quintana, un racconto buttato giù di getto dopo anni di inattività letteraria e che viene rifiutato da una rivista (finanziata dagli yankees) che ancora deve vedere la luce. In un Messico sul quale piove la brama di supremazia culturale nordamericana, dove è il capitalismo ad ammantare, mercificandolo, ogni aspetto dell'esistenza, sarà proprio Quintana a scomparire agli occhi della realtà e a scivolare nella follia del suo stesso racconto.
Ex compagni di scuola che scompaiono, letteralmente, alla memoria del mondo (Langerhaus). Transatlantici che solcano non solo gli oceani ma anche il tempo (Cuando salì de la Habana, vàlgame Dìos). Donne che si rovinano la vita ad invidiare la bellezza delle amiche (L'artiglio). Bambini che scompaiono nel nulla sotto gli occhi della madre (Tenga, si distragga). La realtà di Pacheco si deforma in maniera silenziosa, elegante, senza che si verifichi mai uno strappo vero e proprio, è piuttosto un traslare in una dimensione parallela che si sovrappone alla nostra e la rende improvvisamente incomprensibile. Ma è la nostra stessa realtà ad essere in fondo incomprensibile, misteriosa e disturbante (vedi Il principio del piacere e L'artiglio): non è forse l'innamoramento una dimensione diversa da quella in cui viviamo normalmente che si impadronisce di chi la vive e lo centrifuga fino a lasciarlo privo di punti di riferimento? Non è lo scorrere del tempo (e i suoi effetti sul reale) un meccanismo che, a rifletterci, è mostruoso, incomprensibile, avvilente?

  L'eccezionalità di Pacheco, nei suoi racconti, consiste nello spostare l'elemento perturbante da esterno all'esistenza (come ad esempio nei racconti gotici), ad interno ad essa, per finire poi con l'essere l'esistenza stessa. La vita umana è dunque già di per sè incomprensibile, perturbante appunto, e non c'è differenza reale nel trovarsi ad affrontare lo spirito di un morto, la sparizione di un amico o il naturale passaggio all'età adulta. Ogni cosa, nell'opera di Pacheco, è in frantumi, e danza, una danza elegante, soffice ma che ha nel suo stesso volteggiare un alito di follia che la rende sgraziata, fuori tempo. E allora, perchè danzare?  Perchè proseguire a giocare quel gioco che doveva essere divertente e che invece porta inevitabilmente al fallimento?
   Un malinconico sbigottimento è la sola risposta che l'uomo può avanzare come pretesa di fronte ad un mondo incomprensibile e sordo ad ogni pretesa di comprensione.

Questi sei racconti pubblicati per la prima volta in Messico nel 1972, che vengono normalmente catalogati come racconti del mistero, confermano che è l'intera poetica di Pacheco ad essere legata al lato misterioso dell'esistenza. Qualsiasi tentativo di volerne contenere gli orizzonti all'interno di generi o scuole non ha senso: l'opera di Pacheco è grande letteratura. Punto.

 Da leggere assolutamente, del maestro messicano: Il vento distante e Le battaglie nel deserto.

José Emilio Pacheco (1939-2014) è stato un poeta, saggista e narratore messicano tra i più noti e amati. Ha pubblicato circa trenta libri di poesia, e selezionatissime opere di narrativa, che gli hanno valso i maggiori riconoscimenti letterari, fra cui il premio Cervantes nel 2009.
  In Italia è uscito Il vento distante, presso Sur Editore editore, La poesia nella speranza, presso Bulzoni