"E di colpo percepisce in quella dichiarazione una minaccia. Qualcosa che si avvicina dalla parte del mare. Qualcosa che avanza trascinato dalle nubi scure che attraversano invisibili la baia di Acapulco."
Roberto Bolano, (da Ultimi crepuscoli sulla terra; Puttane assassine)

domenica 17 marzo 2013

Va tutto bene, di Matthew Mcintosh, Mondadori editore

Mi pare che questo libro non abbia avuto una gran fortuna in Italia, quantomeno io l'ho recuperato a 4 euro e 90 in un cestone al Carrefour, in mezzo ad un mare di edizioni strampalate e sconosciute e libri di autori oscuri o caduti in disgrazia o che in disgrazia non ci sono neppure caduti ma ci son nati. Eppure, Va tutto bene è una sorta di Spoon River, solo che Spoon River non si chiama Spoon River ma Federal Way, e le voci non sono quelle dei morti che marciscono nel cimitero bensì quelle dei vivi che si arrabattano a campare come possono, terrorizzati come cervi davanti ai fari di un'auto. La paura, l'immobilità, lo sconcerto di fronte all'esistenza, la droga, i figli che diventano un ordine di misura del proprio fallimento o dell'incomprensibilità della vita, il matrimonio come qualcosa di assurdo e in certi casi di misterioso, la morte e tutto ciò che sta prima della morte, fino ad un secondo prima, il basket e l'amicizia, il lavoro, e la boxe, il Trolley bar attorno al quale tutto gira ( e, a volte, vortica, ma lentamente, in vortici lenti, dolenti ed ipnotici). Tutto questo è Federal Way, ma in realtà non è così. Federal Way - immagino - è ben altro: è la scelta che Mcintosh compie che ci porta a quanto sopra elencato, l'umanità da descrivere Mcintosh la sceglie in base al momento che sta vivendo. Un momento delicato derivato da un destino incattivito, poca azione, quasi nulla, nulla, al contrario molta introspezione raccontata con una maestria che pochi autori si possono permettere: sono i sentimenti genuini, strazianti, a volte imbarazza(n)ti che si scontrano e si combinano nei vari capitoli e rendono il senso di un'azione che non c'è, e che trasmettono un'idea di unità narrativa che in realtà quasi non esiste. Il punto d'unione è Federal Way, nel senso che le storie narrate appartegono a persone che vivono lì: poi: a persone che stanno seguendo una certa partita di basket, che frequentano o frequentavano un certo locale, il Trolley, che ruotano attorno al funerale di un giovane suicida, ma non solo. Poi ci sono voci che emergono per assonanza con altre: il pugile che pensa se andare al funerale di un suo avversario, la madre che s'imbambola in fila al supermercato e, in quel momento, in quel preciso momento, si accorge di un particolare banale che la rimanda a qualcosa di più grande, pensa, forse di superiore o trascendente e si chiude in macchina cercando di capire qualcosa in più finchè la figlia non bussa al finestrino e le chiede perchè diavolo non si dia una mossa, o il tossico che in pratica vive su un battello di linea e quando scende a terra va in cerca di vecchi e nuovi compagni di sballo, cercando in quella maniera sinistra un raggio di luce, un'amicizia, anche solo per la notte, anche solo per avere il tempo per raccontare di sua moglie e di sua figlia che ora stanno con un tipo giù a Federal Way, di sua  moglie che lo ha lasciato anni prima, quando lui combinava brutti casini e si comportava male con la gente, non come ora che offre la roba gratis e si raccomanda coi giovani tossici di non mettersi nei guai: il suo modo per redimersi.
  Buona parte dei capitoli s'intitolano "Quanto diavolo ci mette ad arrivare", ed è come se fosse la domanda stessa dei protagonisti del romanzo che si domandano quando arrivi la botta, come il cervo paralizzato di fronte ai fari dell'auto: la botta definitiva che li colerà a picco, o la botta di fortuna che li risolleverà, o la botta di droga che li spedirà per qualche tempo in un mondo meno spaventoso, più luminoso e semplice di quello in cui sono intrappolati. Mcintosh aggiorna alla contemporaneità l'umanità descritta nei romanzi di Nelson Algren e la demitizza. I losers di Mcintosh sono losers non tanto (o non solo) in relazione alla loro condizione sociale o economica, bensì lo sono perchè in un dato momento (che può essere un periodo o tutta una vita) si trovano a non capire le regole base dell'esistenza, quelle che tutti danno per scontate, prima ancora di non essere in grado di adattarvisi, non le compredono, si trovano in un universo senza senso, senza logica apparente ai loro occhi, per questo in fondo hanno paura, per questo cercano conforto nelle droghe, e per questo nonostante non siano buoni padri, buoni mariti o buone mogli, non siano nè buoni lavoratori nè tantomeno buoni cittadini, nè siano buoni pugili e non lo siano mai stati e in certi casi non siano in gradi di essere neppure buoni tossici, comunque chiamano il lettore a non giudicarli, se non proprio a capirli (o a cercare di farlo), almeno a non giudicarli. Ma alla fine più che pura e semplice compassione si arriva a provare tenerezza per (alcuni di) loro, perchè in fondo quelle paure che emergono dalle pagine del libro, quel non comprendere l'esistenza o certi suoi aspetti, quel rimanere immobili e spaesati sono sensazioni che fanno parte di ogni essere umano. La bravura, o forse in questo caso ci si può spingere ad affermare: la grandezza di Mcintosh sta nel comporre un puzzle apparentemente disordinato (ma organico) che lascia emergere su tutto non uno o più personaggi, una o più situazioni, bensì la sensazione, quel quid di inespresso (perchè inesprimibile) che non sta nei racconti, nei personaggi e noi dialoghi e solo in parte sta nella scrittura bensì tra le righe, nel non detto, nell'immaginato, quella sensazione che ci portiamo dentro e non sappiamo rendere comprensibile al prossimo di inadeguatezza, di assurdità, di incomprensione e la paura collegata e la successiva necessità di tenerezza, di appoggio, di aiuto. Il bisogno assoluto di famiglia o di amicizia, o di entrambe, se non fosse che anche l'amicizia e la famiglia si rivelano parte del disegno oscuro nel quale ci si è persi.


Matthew Mcintosh esponente dei giovani narratori americani che in anni recenti ha fatto conocere  David Foster Wallace, Nathan Englander e Adam Haslett,  è uno scrittore che dà voce alla più basse frequenze del cuore. Ha ventisette anni ed è nato vicino a Seattle, laureato all'Iowa University, è autore di racconti pubblicati su riviste e cofondatore della piccola casa editrice indipendente  Well Known Press.

lunedì 4 marzo 2013

35 morti, di Sergio Alvarez, La nuova Frontiera editore

"35 morti" è il "Potere dal cane" dal punto di vista del cane. Il capolavoro di Don Winslow narrava con una forza ed un afflato epico la grande guerra alla droga e della droga nel suo imporsi al mondo non solo come forza criminale ed economica ma anche come stile di vita, come codice di comportamento ripreso ed imposto al mondo dai media internazionali, non ultimi il cinema hollywoodiano. Sergio Alvarez, a suo modo, avvicina l'obiettivo ai protagonisti più o meno piccoli di quella guerra al punto da rendere la guerra stessa qualcosa di sfocato ma assolutamente presente in ogni pagina del suo libro. I boss ci sono, ma rimangono sullo sfondo, e non siamo in grado di capire quanto siano importanti in quel mondo al rovescio che è l'universo del narcotraffico e della Colombia fino agli anni '80. Viene citato diverse volte Pablo Escobar, ma è un nome, un'entità che proietta la sua ombra mortifera sul paese in maniera quasi naturale, come se fosse normale essere Pablo Escobar e comandare su un'intera nazione, ma alla fine sappiamo solo che muore, come tutti. In realtà di Escobar non frega niente a nessuno, così come a nessuno importa qualcosa degli altri boss, piccoli o grandi che siano, dei capi guerriglieri, dei politici corrotti o dei paramilitari. A dire il vero i protagonisti di questo magnifico romanzo, se ne fregano di tutto e di tutti o, per meglio dire, vorrebbero fregarsene di tutto e di tutti, ma non possono. Non in un paese come la Colombia, dove sei costretto ad uccidere se non vuoi essere un coglione destinato a soccombere. Cacciarsi nei guai sembra essere la più facile delle conclusioni di qualsiasi giornata, in guai seri. I guai seri di solito prevedono l'eventualità di una morte violenta. Morte violenta che è all'ordine del giorno - quasi quanto i guai -, una presenza costante nella vita di ognuno, una faccenda odiosa ed antipatica quanto si vuole, ma comunque inevitabile. Che tu sia un famoso pluriassassino, Botones (che darà il via ad una genìa di coglioni, sfigati ed assassini che comporranno il romanzo), un ragazzino sperduto in cerca di un qualche punto fermo, un sognatore utopista, un artista, un comunista, un guerrigliero, un trafficante, una puttana, un insegnante, un militare, un imprenditore: la morte continuerà a camminarti accanto e, ogni qual volta sarai scivolato nell'illusione di aver raggiunto una tua pace personale, una famiglia, un posto sicuro nel mondo o qualsiasi altra cosa ti sia prefisso di raggiungere, arriveranno i guai a spazzare via tutto, e con essi la morte. Moriranno tutti, o quasi tutti, tutti gli amici, tutte le donne, tutti i compagni, e chi non risulterà effettivamente deceduto sarà come se lo fosse, perchè se ne sarà andato dal paese, sarà sceso a patti con la vita, si sarà arreso, avrà tradito, sarà passato tra le fila del nemico, e non una, ma più volte. E' l'apoteosi del disastro. Il protagonista (anche se in realtà trattasi di romanzo corale) è una sorta di Forrest Gump privo di morale - non immorale bensì amorale - non particolarmente sveglio ma enppure un idiota fatto e finito e comunque dai mille talenti, ma il dubbio che coglie il lettore è che in realtà non sia tanto il protagonista a possedere quelle caratteristiche, bensì un'intero popolo. Forse un'intera cultura o tutto un continente. Quello che ne risulta, alla fine, non è tanto il ritratto di un'epoca o di un paese, bensì qualcosa di più, qualcosa che dallo sguardo "basso" dei suoi protagonisti s'innalza fino a divenire un sentire, un modo di percepire l'esistenza, di giocarsi il futuro a dadi, ballando salsa, scopando contro ogni logica e contro ogni buon senso, mettendo in gioco tutto quanto e mettendosi in gioco in tutto e per tutto, fino a gettarsi via, bevendo, ubriacandosi, drogandosi, scivolando via dalle proprie responsabilità fino alle estreme conseguenze. E' la fotografia vorticosa, anche nel ritmo narrativo, di una corsa irresponsabile verso l'abisso, irresponsabile ma in qualche modo cosciente, come se il Fato intessesse destini a proprio piacimento e si limitasse poi a svolgere il ruolo delle sirene per i naviganti: incanta, chiama a sè, instrada gli uomini nei percorsi che già ha deciso per loro, percorsi contorti, assurdi, tragici e dolorosi, a volte poetici, a tratti straripanti di felicità intense e brucianti, percorsi insensati che si perdono su sè stessi e non portano da nessuna parte. E qui stà, a mio parere, la reale grandezza del romanzo: il senso dell'esistenza, i personaggi lo trovano (o forse non lo trovano, ma certamente lo "sentono") esattamente in quel loro vagabondare senza speranza, nell'assurdità di un viaggio terribile e senza significato. Bisogna guardare il destino in faccia, a testa alta, a petto in fuori, ma anche no, anche piangendo e bevendo, o cercando conforto tra le carni calde di qualche donna, ma sempre ed in ogni caso trovare la forza o la disperazione per lasciarsi tutto alle spalle, per dimenticare, o fingere di dimenticare, perchè quella è la vita, passare da una disfatta all'altra, da una vittoria fatua ad una caduta disastrosa, per nessun altro motivo se non che, per assurda che sia, quella appunto è la vita. La vita in Colombia, dove se non ti adatti ad uccidere, e all'occasione a dimenticare di averlo fatto, allora sei un coglione. Siamo tutti figli di Botones, assassini nostro malgrado, sperduti ed innocenti tanto quanto spietati e sadici, vittime che si trasformano in carnefici da un momento all'altro (e viceversa) per un capriccio del destino, per un concatenarsi di casi che non ha senso analizzare e cercare di comprendere. Siamo nati da una stirpe di assassini, e moriremo assassini (o drogati o spacciatori o truffatori), ammazzati da qualche altro assassino. 35 morti diventerà un classico. E' il brulicare insensato della vita che scorre al di sotto (o tra le righe) di quel capolavoro che è Il potere del cane: sono due facce della stessa medaglia, un capolavoro che completa l'altro (e in esso, a sua volta, si completa).

  Un sincero apprezzamento all'editore che, utilizzando i proventi derivanti da fenomeni editoriali effimeri e di scarso valore letterario come Yuri Herrera per portare in Italia (e in ottime traduzioni) autori del livello di Alvarez (o Valeria Luiselli, Julio Ramòn Ribeyro, o Juan Josè Saer solo per citarne alcuni), compie un'operazione non solo valida e coraggiosa, ma soprattutto meritoria.
  Aspettiamo altri libri di Alvarez, e altri Alvarez.




Sergio Alvarez è nato nel 1965 a Bogotà. Figlio di un sognatore e di una maestra di scuola, ha sempre coniugato la passione per i libri con quella per l'avventura. Il suo primo romanzo La Lectora ha ottenuto il premio Silverio Canada della Semana Negra di Gijòn nel 2002. Sergio Alvarez ha dedicato dieci anni alla scrittura di 35 morti, un romanzo che è frutto di approfondite ricerche sulla storia e sul mondo del narcotraffico in Colombia, nonchè di numerosi viaggi in tutto il paese.